A quattro anni dal sisma del 24 agosto 2016 nel Centro Italia, il ricordo delle vittime e una ricostruzione ancora inesistente

Quattro anni fa un sisma violentissimo irruppe nella notte ad Arquata del Tronto, Accumoli e Amatrice. Persero la vita 299 persone e vennero distrutte la maggior parte delle abitazioni presenti sui territori.

80.000 gli edifici danneggiati, di cui 45.000 nelle Marche.

Da allora, la vita in questi luoghi è risultata complicata e nebulosa. Divisi tra alberghi e “autonome sistemazioni” prima, sistemati nelle Sae dopo. Casette assegnate in base ai componenti dei nuclei familiari, necessari allo svolgimento della vita quotidiana. Niente più cantine, garage, spazi che permettevano quel vivere lento e laborioso di montagna. Dopo quattro anni, è tutto fermo esattamente come allora. Ancora nelle Sae, ancora nel mezzo delle macerie, ancora nella desolazione e nel buio di un futuro che si intravede con fatica. Pochi servizi, la tenacia di chi continua a lavorare in quei territori per amore delle proprie origini, la dimenticanza delle Istituzioni che promettono e non mantengono.

Tanto sono gli anni come quelli dei Commissari alla Ricostruzione che si sono avvicendati nel tempo, soltanto l’attuale Giovanni Legnini sembra stia cercando di trovare soluzioni concrete, seppure ancora non bastino.

Un popolo tosto quello di montagna, abituato a cavarsela da solo ma dinanzi alla distruzione, alla perdita di familiari, genitori, figli, a cui da parte delle Istituzioni viene dedicato un ricordo solo negli anniversari come questi, il supporto era e rimane necessario. E torna come un promemoria, quel termine coniato da Leonardo Animali, “la strategia dell’abbandono”, che nessuno vorrebbe ammettere ad alta voce ma che sembra sia stato il leit motiv delle scelte della politica tutta, finora. Le uniche certezze sono i giovani dell’Associazione Arquata Potest che hanno scelto di non arrendersi e hanno recuperato antichi sentieri per favorire un turismo lento, immerso nella natura, e continuano a combattere a dispetto di tutto, con coraggio ossia la virtù di -avere cuore- e anche cura di un luogo che ti appartiene.

Ci sono i ristoranti e i bar che hanno riaperto ad Arquata, credendo in un progetto di vita che avevano scelto prima del sisma, così come i giovani imprenditori agricoli. Poi c’è Monte Vector, ovvero Stefano Cappelli, fornaio di Borgo che ha perso tutto, casa e lavoro, ed Elena Pascolini che si sono inventati il Rifugio Mezzi Litri e si perdono nell’amore per la montagna e per una vita più consapevole. Ogni persona di Arquata, così come di Amatrice e Accumoli, che è rimasta a vivere lì, lo ha fatto per un solo motivo, il senso di appartenenza e la forza delle radici che li lega a quei luoghi. La politica tutta ha provato in ogni modo a scoraggiarli, a deprimerli, a invogliarli verso altre mete, ma sono stati più forti. Solo le Sae sono opera dello Stato, tutto quello che è stato costruito ad Arquata è frutto delle donazioni di privati, come la scuola donata da Specchio dei Tempi, oppure i centri di aggregazioni che vengono utilizzati come chiese o luoghi per continuare a perpetuare il legame con le famose seconde case, quelli che tornavano nei fine settimana o nei mesi estivi. Sono ripartiti i pagamenti dei tributi, invece di rendere concreta la richiesta di tutti i sindaci che chiedevano una “Zona Franca Economica”, nessuna richiesta è stata accolta, forse neanche ascoltata davvero.

Chiunque sia passato per i paesi d’Arquata ha provato sconforto per l’immobilismo che li avvolge. Un silenzio ovattato e surreale unisce il prima e il dopo, le macerie che guardano le Sae, le Sae che guardano le macerie. Dopo quel boato, la vita di prima non torna, non torna nulla della tranquillità che si prova quando credi di essere al sicuro a casa tua. “Casa tua” non c’è più, e quindi si scommette sulla propria vita ogni singolo giorno. Continua la speranza, perché null’altro si può fare, niente è permesso all’infuori di sognare che parta la ricostruzione, che quelle dolorose macerie vengano portate via dagli occhi di chi le guarda quotidianamente, che i paesi tornino a poter dimostrare la propria identità. Si sentono tutti come la Regina Giovanna D’Angiò, ideata dalla Pro Loco di Arquata, che guarda sconsolata le macerie e non riesce a riconoscere il suo paese.

Una passerella di politici, di commissari, di tutto quello che è politica, ente, Istituzione, hanno continuato a illudere le persone consapevoli di farlo, senza mai dare seguito ad alcuna promessa. Non erano così importanti quei paesi di montagna, così poco appetibili in termini economici e consensi elettorali. 

Tante parole, forti strette di mano, ampi sorrisi e poi via a dispetto del dolore, della paura, di chi si affida a te perché non ha più nulla. Potevano scegliere se accarezzare quelle persone o stringere più forte quel dolore, e tutti loro hanno scelto la seconda opzione.

Non si può più aspettare, è giusto riconsegnare ad Arquata, Accumoli e Amatrice la dignità che li ha sempre contraddistinti, non ci sono più alibi o scuse.

“Rabbia e commozione” – ci diceva il vicesindaco di Arquata Michele Franchi qualche giorno fa. Rabbia per tutto quello che non è stato fatto e commozione per tutte persone che hanno perso la vita quel 24 agosto 2016. Una memoria che si dovrebbe onorare più spesso da parte di tutti. 

La ricostruzione è avviata per il 6,6%, una percentuale ridicola e offensiva.

È un trauma che non troverà pace, finché non torneranno a vivere i paesi, le frazioni, finché non ci saranno le nuove case a permettere una vita dignitosa.

La terra continua a tremare, la vita delle persone rimane sospesa, un profondo senso di abbandono invade l’animo degli abitanti di Arquata, Accumoli e Amatrice., c’è un tempo del silenzio per commemorare e un tempo per rivendicare i propri diritti. 

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