Quattro anni fa il Centro Italia si risvegliava con il terremoto. Bisogna salvare i borghi dell’Appennino

Il 30 ottobre di quattro anni fa, il Centro Italia si risvegliava con il boato di una nuova scossa di terremoto.

Ad Arquata del Tronto si viveva già precari dal 24 agosto. Chi in roulotte, chi in affitto fuori dal comune, chi ospite di parenti, quando il sisma è tornato a sconvolgere le vite di persone già duramente messe alla prova, una magnitudo di 6.5 che ha distrutto quello che rimaneva. Quella mattina ad Arquata ci si preparava per la sagra Marrone che Passione, un evento portato avanti nonostate le difficoltà dai giovani della Pro Loco.
In un attimo, si è ribaltata ogni cosa. Quella scossa ha sancito la distruzione e il sindaco Petrucci firmò l’ordinanza di evacuazione totale.
La polvere delle macerie e l’anima in brandelli erano la fotografia esatta di quei momenti così intensamente sofferti.
Nel giorno del quarto anniversario, si continua ad accarezzare quelle ferite, ad aiutare il processo di cicatrizzazione, ma non è affatto semplice. Si è abusato della parola resilienza, di tenacia, di volontà, e molti sono stati gli esempi del valore di questi termini, si possono leggere negli occhi di chi abita ad Arquata, di chi vive nelle Sae.

Un continuo rimpallo di responsabilità ha stremato le persone che con il sisma hanno perso tutto, c’è stata un’iniziale fiducia che si è arresa successivamente alle simboliche promesse e strette di mano, così miseramente finte.

L’arrivo del quarto Commissario alla Ricostruzione, Giovanni Legnini, ha accesso una piccola fiammella di speranza. Qualche scelta più incisiva è stata presa, ma la strada è ancora lunga e le paure sono ancora le stesse.
A tale momento avverso, si è aggiunto anche il Covid che rappresenta una doppia emergenza. Isolarsi, nel caso di contagi positivi, dentro una Sae di 40 o 60 mt è una possibilità che spaventa chi vive dentro quelle “casette di legno”, che dovevano avere proprio 4 anni di garanzia. Ma non avevano fatto i conti con chi ha perpetuato l’emergenza, rendendola ordinarietà.
Si è chiesto troppo alle popolazioni del cratere sismico, dei paesi delle Marche, del Lazio, dell’Abruzzo e dell’Umbria. A tutti quelli che continuano a vivere gli effetti del sisma, tutti i giorni.

Le terre “mutate” vogliono vivere, vogliono tornare ad ospitare case vere e sicure, a ridare futuro ai più piccoli, a coccolare le persone più anziane. Non si tratta più solo di emotività, ma anche di aspetti sociali ed economici. Qualcuno conosce profondamente i sacrifici che mettono in atto quotidianamente i commercianti e gli imprenditori nelle zone martoriate dal sisma?
Ci si rialza, quando si prospettano soluzioni adeguate. Si reagisce, quando all’orizzonte si intravedono possibilità. Ma i progetti di vita si costruiscono, quando quella stessa vita non è compromessa, non è bistrattata, non è illusa. Le comunità sono “mutate” insieme alle proprie terre. Vogliono salvarsi, per salvare tutti quei piccoli borghi di montagna che rappresentano il cuore pulsante dell’Appennino.

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