Non da oggi la preoccupazione che assilla l’animo di molti è di salvare il Natale, non già di essere salvati da esso. In genere, si tratta di salvarlo dal consumismo, qualche volta da polemiche pretestuose sul presepe, quest’anno dalle misure anti-Covid.
In realtà, il Natale è un fatto storico incontestabile. Per intenderci, quello di cui parla l’evangelista Luca: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (2,11). Se non fosse per la nostra superficialità basterebbe quest’annuncio a farci sobbalzare, ma tant’è. Il rischio è che la routine finisca per smarrire il recondito senso del Natale.
Senonché proprio quest’anno potremmo scoprire qualcosa di diverso dal solito.
Va detto per correttezza, che la nostra festa di Natale del 25 dicembre era sconosciuta ai cristiani dei primi tre secoli. Fino all’inizio del IV secolo, questo giorno passava del tutto inosservato, senza che i cristiani si adunassero per la santa messa e senza che la nascita di Cristo venisse neppure nominata.
Dopo Costantino che non aveva esitato a definirsi Helios risplendente, il Natale finì per scalzare la festa pagana del Sol invictus che si celebrava proprio il 25 dicembre, cioè nel solstizio d’inverno, quando le giornate cominciano a riacquistare luminosità. Ne porta traccia un’omelia natalizia di sant’Ambrogio: «Non a torto il popolo chiama questo santo giorno della nascita del Signore “il nuovo sole”, affermando così che anche ebrei e pagani si ritrovano in tale espressione. Ben volentieri manteniamo questa espressione, perché col sorgere del Salvatore si rinnova non solo la salvezza dell’umanità, ma anche la luminosità del sole… Poiché se durante la passione di Cristo il sole si oscura, così esso deve splendere più luminosa che mai alla sua nascita».
Basterebbero queste parole di Ambrogio per cogliere dietro il contrasto tra luce e tenebra, un altro contrasto non meno forte: quello tra la nascita e la morte, tra la mangiatoia e la Croce. Chi più di ogni altro ha intuito questo legame è stato san Francesco.
Tommaso da Celano, nella sua Vita prima, afferma che il poverello di Assisi aveva impresse tanto profondamente nella memoria «l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione», che difficilmente riusciva a pensare ad altro. Nella notte di Natale del 1223 a Greccio si compì un atto destinato ad avere futuro: si celebrò la messa in una stalla. Uomini e donne, frati e animali erano accomunati dalla letizia. Il presbitero celebrò la messa e Francesco lesse il vangelo. Poi prese la parola. Infervorato dall’amore celeste, chiamava Gesù Cristo “il Bambino di Betlemme” e pronunciava l’espressione con una voce che sembrava riecheggiare quasi un belato di pecora.
Domenico Pompili