Ascoli Piceno ha nel suo passato una storia ricca di leggende. Oggi di focalizziamo sulla storia della Sibilla e delle Fate che l’accompagnavano
Il territorio delle Marche ha una ricca storia fatta di tradizioni, leggende e tante storie. Proprio in questa zona, a Recanati per la precisione, nacque Giacomo Leopardi, il poeta amante dei libri che parlava di monti azzurri e inifiniti silenzi della sua terra natia.
In questa regione c’è la catena dell’Appennino, ma anche tante colline. Le Marche hanno un confine che sbocca sul mare ed è particolarmente bello il Golfo di Ancona con le sue rupi alte fino a 500 metri che vanno a picco sull’acqua blu.
Su questi territori sono passati i Galli, i Greci, ma anche i Romani fino alla unificazione dei territori in Marca di Ancona.
Tutti questi popoli hanno portato con sé le proprie tradizioni e anche le loro leggende.
Oggi ci vogliamo proprio occupare di una storia molto nota agli ascolani: la leggenda della Sibilla e delle sue fate. Scopriamola insieme!
La Leggenda della Sibilla e delle sue Fate
Le prime leggende sulla Sibilla Picena, anche nota come Sibilla Appenninica, risalgono all’Eta Imperiale nel I secolo d.C.
Questa storia non fa parte delle dieci Sibille raccontate da Marco Terenzio Varrone.
La Sibilla, nella sua storia, ha avuto diverse funzioni e ruoli. E’ stata definita una veggente, un’incantatrice, una maga molto bella o una fata dal cuore d’oro.
Con l’avvento del Cristianesimo e poi con il passaggio da Tarda Antichità e Medioevo, la Sibilla è passata da una figura benevola ad essere malvagia.
Questo è reso evidente dal romanzo cavalleresco scritto da Andrea di Jacopo da Barberino intitolato “Il Guerrin Meschino“.
Lo scritto si svolge durante l’Alto Medioevo, dopo 10 anni dalla morte di Carlo Magno. Il cavaliere protagonista si presenta alla Grotta della Sibilla per chiederne il favore. La donna vista in una chiave cattiva e demoniaca, trattiene l’uomo e l’induce a commetere peccati e apostasia.
Un’altra leggenda sibillina di origine celtica parla di una Sibilla Regina che ha nella sua corte tante fate, donne molto belle e affascinanti.
Queste nuove figure hanno però una particolarità: sono belle sì, ma ogni fine settimana perdono la pelle come i serpenti.
Stacchiamoci dal pensiero del serpente nella cultura Cristiana, ma vediamola con l’occhio della tradizione celtica. Questo particolare rettile veniva utilizzato come simbolo di fertilità e di guarigione.
Alle fate sono state dedicati tantissimi luoghi sui monti Sibillini. Secondo la tradizione, si credeva che queste si muovessere tra i paesi di Foce, Montemonaco e Montegallo attorno al lago di Pilato.
Ma come venivano viste queste fate dagli uomini che abitavano quelle terre? Si crede che le fate uscissero di notte dalla grotta della Sibilla per insegnare alle donne del paese l’arte della filatura e della tessitura.
Queste donne avevano i piedi caprini, quindi erano facilmente riconoscibili anche a notte fonda grazie al suono che faceno i loro zoccoli quando battevano sulle pietraie dei monti.
Le fate, oltre ad insegnare la loro arte, rubavano cavalli così da potersi muovere più velocemente nel territorio delle Marche.
Queste figure mitologiche amavano ballare ed è anche per questo che facevano piccoli furti di equini: potevano passare da un paese all’altro in modo rapido per arrivare in tempo per l’inizio delle danze.
Infatti, si crede che siano state proprio loro a creare il ballo del saltarello. Una volta terminata la festa, le fate tornavano nella grotta della Sibilla prima che iniziasse l’aurora.
Non perderti tutte le storie e le leggende sul patrono di Ascoli, Sant’Emidio.